Curiosità

Lidia Poët, la prima donna Avvocato in Italia era piemontese

Lidia Poët, la prima donna ad essere iscritta all’Ordine degli Avvocati in Italia era piemontese: ecco la sua storia

Di recente, il nome di Lidia Poët, la prima donna ad essere iscritta all’Ordine degli Avvocati in Italia, è tornato in auge grazie alla serie TV Netflix intitolata appunto “La legge di Lidia Poët”, dove si narra la sua storia con Matilda De Angelis nel ruolo di protagonista. Ma chi era questa donna? E perché è un personaggio così importante? Di origini piemontesi, Lidia Poët nacque il 26 agosto 1855 a Perrero, in provincia di Torino, da una famiglia valdese benestante.

Oltre al suo importante primato, Poët fornì importanti contributi per la realizzazione dell’attuale diritto penitenziario. Inoltre, fu tra le prime ad aderire al programma del Primo Congresso delle donne italiane nel 1908. Chiese e ottenne il permesso di proseguire gli studi. Il 17 giugno 1881 si laureò in giurisprudenza discutendo una tesi sul diritto di voto per le donne. Seguì il suo percorso di pratica legale a Pinerolo presso l’ufficio dell’avvocato e senatore Cesare Bertea, assistendo nei processi in Tribunale. Superò l’esame di abilitazione alla professione forense riportando la votazione di 45/50, ragion per cui chiese l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino.

La sua richiesta venne accolta il 9 agosto 1883, ma l’avvocato ed ex ministro dell’interno Desiderato Chiaves e l’avvocato Federico Spantigati si dimisero dall’Ordine per protesta. Il presidente Saverio Francesco Vegezzi e i consiglieri Carlo Giordana, Tommaso Villa, Franco Bruno, Ernesto Pasquali si dichiararono favorevoli, affermando che “le donne sono cittadini come gli uomini”.

Immagine da: Wikimedia

La revoca all’iscrizione e la battaglia legale

Pochi mesi dopo, però, il procuratore generale del Regno impugnò l’iscrizione all’Ordine e fece ricorso alla Corte d’Appello di Torino, che accolse la sua richiesta e sentenziò la cancellazione dall’albo. Lidia Poët presentò un ricorso articolato alla Corte di Cassazione. Questa fu respinta sostenendo che “La donna non può esercitare l’avvocatura”, poiché tale professione doveva essere qualificata come “ufficio pubblico”. Questo comportava automaticamente un’esclusione da parte delle donne perché la loro ammissione agli uffici pubblici doveva essere esplicitamente prevista dalla legge del tempo.

La sentenza faceva appello anche questioni di carattere lessicale, dato che la legge unitaria sull’avvocatura 8 giugno 1874, n. 1938 utilizzava il termine “avvocato” solo per il genere maschile, senza alcuna declinazione al femminile. Inoltre, i giudici fornirono numerose motivazioni frutto di stereotipi di genere. Dal ritenere “bizzarro” che una donna indossasse la toga alla diffidenza riguardo la sua “debolezza fisica“, fino allo scetticismo circa le adeguate “qualità intellettuali e morali” come la fermezza o la costanza in ambito professionale. La sentenza scatenò un dibattito a livello internazionale e la maggior parte della stampa italiana si espresse a favore di Lidia Poët. La donna continuò a praticare di fatto al fianco del fratello Giovanni Enrico fino al 1920.

Subito dopo la Prima Guerra Mondiale, con la Legge “Sacchi” n. 1179 del 17 luglio 1919, si abolì l’autorizzazione maritale, consentendo alle donne di entrare negli uffici pubblici, fatta eccezione per la magistratura, la politica e i ruoli militari. Nel 1920, all’età di 65 anni, Lidia Poët riuscì finalmente ad ottenere l’iscrizione presso l’Ordine degli Avvocati, divenendo ufficialmente il primo Avvocato donna d’Italia.

Redazione

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